Alba o tramonto della rivoluzione?
In un lavoro destinato al grande pubblico, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, 2015), Paolo Prodi poneva una questione: come è stato possibile che, nel volgere di pochi decenni, la parola “rivoluzione” sia caduta talmente in disuso al punto da diventare «quasi soltanto oggetto d’antiquariato o di vignetta satirica»?
Nessun linguaggio politico parla di più di rivoluzione. Né i suo soggetti la praticano.
I politici parlano di “movimento”, “mutamento”, “riformismo” e "riforme". Ma sono parole vuote, meri performativi del nulla. Quando usano il termine «rivoluzione», osservava Prodi, lo usano al passato. E cosí anche i «movimenti eversivi o che vorrebbero essere tali, tutti i movimenti di opinione che lottano contro la struttura della societá attuale, tutte le tendenze che vengono connotate come "anti-politica" evitano per lo piu questo termine o lo usano in modo metaforico o allusivo», mentre soltanto pochi anni fa «rivoluzione» era la parola chiave di ogni movimento di popolo.
Accade così che anche sotto la lente di uno storico abiutato a riflettere sul Papato e la Controriforma, si presentino gli usi linguistici e l’antisemantica post-politica del “nuovo popolo della rete”.
Un “post-popolo” che «usa il termine per designare il passaggio da 2.0 a 3.0, per indicare un passaggio interno allo sviluppo della tecnologia e della comunicazione, contraddicendo proprio il significato piu tradizionale di rivoluzione come rottura».
Il mito della rivoluzione è finito. E l‘Europa si trova senza fondamento. Perché, ricordava amaramente Prodi, «l'Europa, l'Occidente sono nati e cresciuti come "rivoluzione permanente", cioé come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra essere venuta meno». Torgliamo il dubitativo e andiamo dritti al punto: il nesso stava proprio qui.
Non è possibile – questa una delle sue grandi lezioni – comprendere il declino dell´Europa solo sul piano geopolitico o geoeconomico. “Declino” non significa semplicemente il “venir meno” della potenza militare o espansivo-finanziaria di un continente.
Quando parliamo di Europa, declino «è il venir meno della capacità rivoluzionaria nelle sue coordinate antropologiche di fondo». Così, spiegava Paolo Prodi, «se non si vuole retrocedere a un’identificazione etnica o di tipo religioso-ideologico (ai fondamentalismi razziali o religiosi) - scriveva in Homo Europaeus (Il Mulino 2015) - il compito da affrontare è quello di ricostruire un’identità collettiva come articolazione complessa, come appartenenza multipla a livello cittadino, regionale, nazionale ed europeo: senza alcun baricentro unico, ma con diversi equilibri all’interno di un terreno comune riconosciuto come tale». Saremo all’altezza del compito?