Cancel culture: un nuovo stile paranoico?

Marco Dotti
6 min readFeb 12, 2022

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«Dovete vedere tutto, sentire tutto e dimenticare tutto». Sembra paradossale inscrivere una riflessione sulla cosiddetta cancel culture nel quadro delineato da questa massima di Napoleone Bonaparte.

Eppure mai come nella cancel culture il paradosso è intimamente, indistricabilmente connesso con la sua contraddizione di fondo: l’incapacità, da parte dei suoi esponenti, di definire chiaramente un progetto e l’impossibilità pratica di darvi seguito se non in forme di tabula rasa che ricordano per molti tratti le scene fondative di linciaggio descritte da René Girard. Solo che, in questo caso, il linciaggio non fonda alcunché. Tantomeno prelude al suo superamento. Tutt’altro: sembra uno dei tratti permanenti di questo eterogeneo movimento nato dapprima sul web come forma di boicottaggio nell’ambito del movimento Me-Too e veicolato attraverso quelle che ancora sono le fonti primarie del nostro immaginario (cinema, serialità: tutto ciò che produce “aura”, in questo caso “di rispettabilità”). Un movimento pulviscolare capace però di pervadere ogni piega del reale e dell’ipereale attraverso un’isterizzazione sociale collettiva. Proprio questa isterizzazione, prima e al di là di ogni ragione, porta a «sentire tutto», odiare tutto e, subito, «cancellare tutto». Persino ciò che si era sentito, attraverso un processo di autofagia tipico della logica della folla: la cosiddetta mob mentality.

Un nuovo stile paranoico

Nella cancel culture si riverbera inoltre «stile paranoico» individuato oltre cinquant’anni fa, sulle pagine dell’Harper’s Magazine, da Richard Hofstadter come tratto distintivo di una visione cospirativa del mondo. Una visione sempre tesa a contrapporre assoluti, ma in un terreno di contesa di immanenza radicale.

Nella visione paranoica della lotta politica e della vita sociale, scriveva Hofstadter, «è perennemente in gioco un conflitto tra il bene assoluto e il male assoluto e le qualità richieste non sono riconducibili a una volontà di mediazione, ma alla determinazione di combattere fino alla fine». Costi quel che costi: «poiché si ritiene che il nemico da combattere sia interamente dalla parte del male, deve essere eliminato».[1] Scegliersi “nemici” nel passato e, anziché affrontarli con gli strumenti della critica storica e della contestualizzazione, provvedere al loro “reset” dal palinsesto storico è un altro elemento caratteristico della cancel culture.

Jean-Luc Godard, interrogato sulle ragioni della prima guerra del Golfo, rispondeva: «non il petrolio, né il denaro, ma la scrittura cuneiforme: ecco cosa muove l’inconscio politico USA in questa guerra». La scrittura cuneiforme? «Cancellare ogni traccia di cultura e civiltà preesistente: intendo questo». Se al tempo della Guerra del Golfo erano le statue dei dittatori lontani i simulacri da abbattere (con buona pace della scrittura cuneiforme), oggi quella tendenza si è riversata all’interno del campo occidentale. La deturpazione e la demolizione di monumenti storici — ha osservato Juliana Geran Pilon, in un saggio apparso sull’Israel Journal of Foreign Affairs — «sono i sintomi più drammatici, anche se non i più letali, della malattia che attualmente soffoca i polmoni dell’America».[2] Una malattia che sembra nascere, come mutazione, dai due ceppi del puritanesimo e della paranoia: la cancel culture e la pervasività della sua matrice puritana mista a paranoia sociale hanno colonizzato la sfera pubblica segnando non solo — cosa che invece accade in Europa i dibattiti sui diritti, ma le relazioni concrete, al punto da costruire una sorta di nuovo, preoccupante stigma pregiuridico.[3]

A essere oggetto di questa furia iconoclasta non sono state solo le figure confederate che per tanto tempo sono state oggetto di critiche e revisioni, ma anche, in alcuni casi, quelli che rendono omaggio a George Washington, Abraham Lincoln e persino all’abolizionista Frederick Douglas. Un corto circuito inquietante e destabilizzante che, dal lato sinistro, in forme che qualcuno ha definito neomaoiste, ha replicato ciò che, sul lato destro, nella galassia alt right del dark illuminism (oggi Qanon),[4] avveniva carsicamente. Entrambi i lati sembrano confluire in forme accelerate di rancore e “demolizione sociale”.[5]

Neopuritanesimo pop

Ciò che oggi, qui, nei dibattiti e nelle analisi, nei pro e nei contro percepiamo è forse solo l’assestamento conseguente a questa poderosa scossa sismica il cui epicentro è in quella grande linea di faglia neopuritana che furono, e in forme nuove ancora sono gli Stati Uniti. La furia che anima la cancel culture, però, non sembra concentrarsi se non in maniera superficiale sugli artefatti della memoria. L’emisfero occidentale del pianeta ha già conosciuto, nella figura del “vandalo”, forme simili di distruzione materiale e simbolica su ciò che deve essere conservato. Una questione, quella del vandalismo, che il conte di Montalebert, in una sua celebre requisitoria scritta nel 1883 sotto forma di “Lettera a Victor Hugo”,[6] invitava a leggere come «in primo luogo e esclusivamente religiosa».[7]

L’oggetto di questa rabbia sembra coincidere con la memoria stessa. Un terzo elemento sembra innestarsi così nella doppia radice puritana e paranoica: la tendenza all’irredimibile, che non prevede alcuna possibile strada individuale sulla via della redenzione. Una nuova pastorale politico-sociale, per usare il linguaggio di Michel Foucault, oggi non avrebbe più ragione di far leva sul potere della confessione e del perdono, ma sull’oblio radicale. La cancel culture, mentre punta a cancellare ogni riferimento esterno, punta anche a rendere incancellabile lo stigma interno che la produce. Da qui il paradosso che la costituisce: mentre cancella, inscrive. Mentre imbratta, pretende di tagliare il supporto che ospita, come appendice vandalica, il suo graffio e la sua vernice.

«Non bisogna volgersi indietro. Il passato è morto. Perché dovremmo fermarci a guardarlo ancora?», scrive Nathaniel Hawthorne, l’autore della Lettera scarlatta, tra i testi più frequentati dagli osservatori (non certo i più critici) della cancel culture. Il passato non esiste, si trova costretta a dire Hester Prynne, l’adultera marchiata strappandosi di dosso la lettera “A”: «togliendomi questo simbolo, il passato non sarà mai esistito». Una frase che sa di liberazione. Ma a quale prezzo?

Cancellare l’incancellabile è ancora, già redenzione? Domanda non da poco, che conviene lasciare senza risposta. In questo senso, più che causa, la cancel culture è sintomo — tra i tanti, forse il più preoccupante — di quel rapporto problematico tra la modernità e l’oblio,[8] tra rammemorazione e redenzione, tra colpa e perdono che ha oggi assunto forme e velocità inimmaginabili di dissolvimento della memoria, provocando un nuovo e, per ora, inimmaginabile salto di scala. La storia, scrive Joyce, «è un incubo da cui risvegliarsi».[9] Se non c’è storia — con i suoi errori, con i suoi crimini, con le sue miserie: tutte, tutti umani — da che cosa potremo mai risvegliarci?

Testo apparso su: “.Con”, Centro Culturale di Milano, n. 2 (febbraio 2022)

Note

[1] R. Hostaedter, “The Paranoid Style in American Politics”, Harper’s Magazine, novembre 1964.

[2] J. Geran Pilon, “2020 America and the Cancel Culture of Fools”, Israel Journal of Foreign Affairs, vol. 14, n. 2 (Maggio 2020), p. 183.

[3] Questo aspetto è al centro del lungo articolo di A. Applebaum, “The New Puritans”, The Atlantic, 31 agosto 2021.

[4] Per un’analisi dell’«illuminismo oscuro», v. A. Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato mainstream, Luiss University Press, Roma 2018.

[5] Le conseguenze di questa doppia destabilizzazione attraverso pratiche di “cancellazione” della memoria furono oggetto dell’inchiesta di E. H. Methvin, The Riot Makers. The Technology of Social Demolition, Arlington House, New Rochelle 1970.

[6] Ch. de Montalebert, “Du vandalisme en France”, Revue de deux mondes, t. 1 (1883).

[7] J-Y. Hameline, Conservazione e vandalismo, in Id., Poetica delle arti sacre, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose (Magnano, BI) 2017, p. 182. Per Montalebert, che nel suo Du vandalisme et du catholicisme dans l’art (Debécourt, Parigi 1839) distingue tra un vandalismo distruttore e un vandalismo restauratore, la matrice di ogni atto di distruzione è sempre un attacco al sacro in quanto tale e, al contempo, un tentativo di restaurare in forma sincretica il sacro profanato.

[8] P. Connerton, Come la modernità dimentica, Einaudi, Torino 2010, p. 5.

[9] J.Joyce, Ulisse, a cura di E. Terrinoni, Newton Compton, Roma 2012, p. 61.

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Marco Dotti

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