Del senso, dei luoghi
Nella sua Regola - ma mi potrei sbagliare - San Benedetto introduce un principio rivoluzionario, moderno e al contempo universale: il luogo.
Di contro al vagabondare e al conseguente disorientamento dei chierici del VI secolo, la dimensione della vita comune (communio), necessaria per l’insediamento di una comunità (communitas), richiedeva l’istituzione di un luogo e il radicamento, spirituale ancor prima che materiale, in esso.
Un luogo. Pare facile.
«Che cos’è un luogo?», si chiedeva alcuni anni or sono il gesuita francese Michel de Certeau. Un luogo è uno spazio abitato da una pluralità di sguardi. E, proprio nella misura in cui sa far spazio a una pluralità, e ai suoi sguardi, un luogo è sempre l’ambito privilegiato in cui si esperisce la relazione – di accoglienza, di condivisione, di mutua compartecipazione – con quella figura al tempo stesso affascinante e complessa, urtante e fastidiosa che è l’altro.
Così inteso, e così inteso il concetto di luogo, e il radicamento (e la connaturata dialettica locale-globale) in un luogo può davvero esserne compreso lo spirito (genius). Benedetto circoscriverà questa istituzione attorno al principio cui accennavamo. Lo chiamò stabilitas loci: stabilirsi in un luogo, mettervi radici. Far germogliare piante, avendo sempre cura della condivisione dei frutti.
Da qui, l’estremo interesse per le pratiche ispirate ai principi istitutivi dell’economia monastica, pratiche declinate in tre direttrici dalla forte carica innovativa: (economia della) fiducia, (economia della) circolarità, (economia del) mutualismo.
Stabilità nell’insegnamento di San Benedetto non significa immobilità, tanto meno rinserramento dentro mura. Per Benedetto – e qui risiede l’inesausta attualità del suo messaggio, ovvero la sua capacità di declinarsi nei nuovi spazi della vita contemporanea – è la precondizione stessa di un’apertura, ossia dell’innovazione nella vita dello spirito, non meno che nella cultura materiale.
In questo senso, “monastero” non denomina soltanto uno spazio, ma un luogo. Ma non si riduce nemmeno a quello. "Monastero" non è un luogo, ma una forma per le forma di vita, un altro modo di stare al mondo e - per quanto paradossale possa sembrare - nel mondo.
L’archetipo monastico, calato in un tempo e in contesti di secolarizzazione, ci induce a guardare il mondo con tre occhi: quello dei sensi, quello della mente, quello della fede. Questi occhi, spiega il monaco Raimon Panikkar, ci danno una visione non deformata della realtà solo se li teniamo tutti, contemporaneamente, aperti.
Nelle ultime righe di Dopo la virtù (1981) un testo cruciale del pensiero contemporaneo, Alasdaire McIntyre scrive che la grandezza di Benedetto sta nell'avere reso possibile l`istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di appannamento sociale e culturale, oltre che di perdurante crisi economica.
Il filosofo scozzese si augurava possibile, ispirandosi proprio all'idea di Benedetto, andare verso «la costruzione di nuove forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi». Un luogo, sembra facile. Un luogo.