Donare è un rischio che dobbiamo correre: dialogo con Mark Anspach

Marco Dotti
4 min readDec 1, 2020

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Quale forza contenuta nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi?». Se lo chiedeva, all’inizio del secolo scorso, Marcel Mauss, autore sulle pagine de L’Année sociologique del Saggio sul dono (Essai sur le don, 1923–24). testo fondativo sulla reciprocità, il suo valore e i suoi paradossi.

Possiamo oggi riproporre la domanda, ricordando però che la reciprocità che fonda l’economia del dono non si riduce a uno scambio tra due individui. La reciprocità genera un terzo elemento: la relazione.

Se questa relazione sarà generativa, avremo un’economia del dono. Se si limiterà a un generico e momentaneo sfogo di buone intenzioni, non avremo generatività, ma stagnazione. È questa la tesi di Mark Anspach, antropologo, autore di A buon rendere. La reciprocità nelal vendetta, nel dono e nel mercato (Bollati-Boringhieri, 2007) e, con Marcel Hénaff, di Cosa significa donare? (Guida, 2018).

Ne dono non basta il dono. Serve una reciprocità del dare. Ci può spiegare questo passaggio, particolarmente delicato nelle dinamiche di donazione?
La reciprocità è una costante nelle relazioni umane. Può essere quella negativa della vendetta — in cui viene ricambiato un colpo ricevuto — o quella positiva del dono. L’idea che il dono più autentico escluda la reciprocità mi sembra sbagliata e anche paradossale. Dopotutto, se c’è più gioia nel dare che nel ricevere, non sarebbe ingeneroso privare di questa gioia il destinatario del dono? Il bello del dono è che fa nascere il desiderio di dare a propria volta. Ma la reciprocità non prende sempre la forma di uno scambio diretto. Chi riceve un dono può farne uno a un terzo, alimentando così una catena di reciprocità positiva che coinvolge sempre nuove persone.

Può la logica della reciprocità del dono attivare un circuito mimetico positivo, anche in rapporto alla crisi che l’Occidente sta affrontando o siamo consegnati alla “vendetta”, nella forma di un’indignazione senza sfogo?
La crisi attuale si caratterizza per un circuito mimetico in cui tutti hanno paura di investire perché vedono che tutti gli altri hanno paura di farlo. È una reazione a catena negativa che si propaga su scala sociale e lascia l’individuo disarmato.

Tocca allo Stato intervenire con gesti generosi capaci di rimettere in moto gli scambi economici. Le politiche di austerità provocano un’indignazione giustificata perché possono solo esacerbare la crisi. Per invertire la tendenza attivando un circuito positivo, bisogna dare lavoro ai disoccupati come ha fatto negli anni Trenta il presidente americano Franklin Roosevelt.

Parla di una sorta di servizio civile e sociale?
Parlo del “Civilian Conservation Corps” rooseveltiano che ha mobilitato nei primi quattro mesi dalla sua istituzione oltre275.000 giovani per sviluppare riserve naturali e piantare alberi — un modello possibile per il servizio civile che voi a Vita avete proposto.

Questo esempio ci riporta a dinamich di solidarietà e dono collettivo: riemerge così il tema della reciprocità come fondamento del legame sociale…
Nelle prime società umane, in cui non c’è né stato né mercato, il legame sociale si fonda sul dono. Anche quando le cose donate sono prive di valore utilitaristico, lo scambio di doni crea una relazione fra le persone. Come dice Marcel Mauss nel Saggio sul dono: donare qualcosa a qualcuno significa «regalare qualcosa di se stessi».

Al contrario, la moneta utilizzata negli scambi economici moderni è strettamente impersonale e serve a mettere fine al rapporto. Una volta pagata una merce, non siamo legati da alcun obbligo verso il venditore. Transazioni di questo tipo sono convenienti in molte circostanze, ma non potranno mai sostituire tutto quello che facciamo senza chiedere di essere pagati. Le relazioni di dono rimangono fondamentali per il legame sociale.

Oggi si discute molto di net e social economy: un’economia immateriale e spesso autoreferenziale, che si vorrebbe, comunque, all’insegna della socialità. Il dono, nella sua materialità (scambio di oggetti) deve confrontarsi anche contro logiche di questo tipo…
I social media commerciali sono l’omaggio reso dal capitalismo all’importanza delle relazioni non commerciali. Trasformano i rapporti personali, non utilitaristici, in fonte di “utili”. Siccome la gente non vuole spendere soldi per scambiare con gli “amici”, i profitti dipendano dalla pubblicità.

Per fortuna, esistono ormai social media che non vendono i dati degli utilizzatori ai pubblicitari e che hanno funzionalità equivalenti o migliori rispetto ai concorrenti commerciali. Bisogna sperare che queste piattaforme nuove trionfino a lungo termine. Ci vorrebbe un movimento di rivolta contro tutti i siti commerciali che strumentalizzano i doni degli utilizzatori — come fa Amazon con le recensioni regalate dai lettori — perché questo costituisce una perversione dello spirito del dono.

È davvero possibile quindi un’uscita dall’utilitarismo? In sostanza: c’è un futuro per il dono
L’utilitarismo presume che gli individui siano dominati dai loro interessi egoistici. Ma, a livello più profondo, l’opposizione fra egoismo e altruismo si rivela artificiosa. Anche se, troppo spesso, l’egoismo paga, sappiamo che l’altruismo appaga di più. Pertanto, non è nel nostro interesse rinunciare alla gioia di dare. Ecco perché ci sarà sempre un futuro per il dono!

Originally published at http://www.vita.it on December 1, 2020.

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