«Non pensare all’orso bianco!»

Marco Dotti
4 min readDec 27, 2023

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Fotografia di Ragnar Axellson

Possiamo allontanare da noi pensieri da cui non vorremmo essere travolti? Possiamo smettere di pensare all’orso bianco? L’orso bianco, metafora di un pensiero ossessivo, ha raggiunto una certa notorietà in tempi recenti grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Daniel M. Wegner, ma ha radici lontane.

Sul cosiddetto «white bear phenomenon» o «effetto orso bianco» si trovanomolte cose in rete. Di Wagner, scomparso nel 2013, si può leggere 𝑊ℎ𝑖𝑡𝑒 𝑏𝑒𝑎𝑟𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟 𝑢𝑛𝑤𝑎𝑛𝑡𝑒𝑑 𝑡ℎ𝑜𝑢𝑔ℎ𝑡𝑠 (1989). Concentriamoci sul resto.

L’orso bianco e l’attenzione: Weil, Flaubert, Dostoevskij

Nella seconda pagina di copertina del terzo dei suoi 𝑄𝑢𝑎𝑑𝑒𝑟𝑛𝑖, Simone Weil annota queste parole, forse un monito per la parte più esposta di sé: «Ne pas penser à l’ours blanc». L’antecedente è doppio: Dostoevskij e Flaubert. Ma andiamo con ordine.

Nelle sue 𝑁𝑜𝑡𝑒 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑛𝑎𝑙𝑖 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑒𝑠𝑡𝑖𝑣𝑒 (1863), nelle pagine dedicate al borghese, nel contesto dunque di una riflessione su sacrificio e dono, utile e fraternità, Fëdor Dostoevskij lancia una sfida a se stesso e al lettore: «𝐏𝐫𝐨𝐯𝐚 𝐚 𝐝𝐚𝐫𝐭𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐢𝐭𝐨, 𝐧𝐨𝐧 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐫𝐞 𝐚 𝐮𝐧 𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐛𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐞 𝐯𝐞𝐝𝐫𝐚𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐦𝐚𝐥𝐞𝐝𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐚𝐧𝐢𝐦𝐚𝐥𝐞 𝐭𝐢 𝐬𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐞𝐫𝐚̀ 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐝 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐢𝐬𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞».

Leggiamo la frase in un contesto più esteso (qui nella traduzione di Serena Prina, per Feltrinelli):

«[…] il sacrificio volontario, assolutamente cosciente e non costretto in alcun modo, è a parer mio il segno della massima evoluzione della personalità, della sua massima potenza, del suo massimo autocontrollo, della massima libertà della propria volontà. Sacrificare volontariamente la propria vita per tutti, andare in nome di tutti sulla croce, sul rogo, lo si può fare solo laddove una personalità abbia raggiunto il più alto grado di sviluppo. Una personalità saldamente sviluppata, pienamente convinta del proprio diritto di essere una personalità, e che non prova più alcun timore per se stessa, non potrebbe forse nemmeno fare altro di sé, ovvero nessun altro uso, se non darsi tutta per gli altri, perché anche gli altri diventino esattamente altrettante personalità autonome e felici. Questa è una legge di natura: a ciò tende normalmente l’uomo. Ma ecco che qui salta fuori una pagliuzza, una pagliuzza delle più sottili, ma che se andasse a finire nella macchina, d’un colpo tutto si spaccherebbe e andrebbe alla malora. E precisamente: la sventura in un caso come questo è di avere anche il sia pur minimo tornaconto personale. Per esempio: io offro e sacrifico tutto me stesso per gli altri: bene, allora è necessario che io mi sacrifichi completamente, in modo definitivo, senza il pensiero del profitto, senza punto pensare che io sacrificherò tutto me stesso per la società e che per questo la società tutta si darà a me. Bisogna sacrificarsi proprio in modo da dare tutto, e da arrivare a desiderare che nulla vi sia dato in cambio, che nessuno ne subisca un danno come che sia. Ma come far ciò? Giacché è proprio come cercare di non ricordarsi dell’orso bianco. Provate a darvi questo compito: di non ricordarvi dell’orso bianco, e vedrete che lui, il maledetto, vi tornerà in mente ogni momento. Come fare dunque? Non è possibile fare in alcun modo, ma occorre che la cosa si faccia essa stessa, di per sé, che la si trovi in natura, che essa sia contenuta inconsapevolmente nell’indole stessa della stirpe, in una parola: che ci sia un principio fraterno, d’amore — occorre amare».

Flaubert, adesso. In una lettera del 16 settembre 1845, l’autore di 𝑀𝑎𝑑𝑎𝑚𝑒 𝐵𝑜𝑣𝑎𝑟𝑦 scrive: «Credo di aver compreso una cosa, una grande cosa. È che la felicità, per gente come noi, è nell’idea e non altrove. […] Fai come me. Rompi con l’esterno, 𝐯𝐢𝐯𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐮𝐧 𝐨𝐫𝐬𝐨, 𝐮𝐧 𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐛𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨, e manda a farsi fottere tutto, e te stesso anche, se è la tua intelligenza. C’è ora una sfasatura così grande fra me e il resto del mondo, che talvolta mi stupisco di sentire le cose più natu­rali e più semplici. La parola più banale mi tiene talvolta in uno stato di singolare ammirazione. Ci sono gesti, toni di voce da cui non riesco a riavermi, sciocchezze che mi danno quasi la vertigine. Hai ascoltato qualche volta attentamente persone che parlano una lingua straniera che tu non capisci? Per me è così. A forza di voler capire tutto, tutto mi fa sognare».

Allearsi o lottare con l’orso bianco?

Due riflessioni che indicano due strade diverse, eppure complementari: lottare, sapendo che ogni lotta con l’orso bianco è impari, o arrendersi, diventando una sola cosa con la propria ossessione?

Flaubert sceglie una strategia mimetica: si vestirà con la pelle dell’orso, confondendosi nella realtà. Dostoevskij non riesce a farlo: lotta, pensa, lotta. Infine cade.

Ma Weil? Weil sceglie una terza via: familiarizzare, addomesticarlo, dirigerlo verso la parte più bassa di sé. Scrive: «dolori, umiliazioni, ferite dell’amor proprio, ferite del sentimento. Tutte le sofferenze vane possono, per la loro stessa vanità, servire da orso bianco».

Serve uno strappo. Uno strappo doloroso, una porta aperta da contrapporre alla porta chiusa in faccia al mondo di Flaubert.

Questo «strappo doloroso dell’anima che cessa di pensare a qualcosa — scrive Weil — è il modello del bene».

  • Riferimenti: D. M. Wegner, D. J. Schneider, “The White Bear Story”, Psychological Inquiry, vol. 14, n. 3/4 (2003): 326–29; C. Calò, Simone Weil: l’attenzione, Città Nuova, 1996.

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Marco Dotti

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