Per Olov Enquist, l’ultimo inverno del magnetizzatore. Un’intervista

Marco Dotti
8 min readApr 26, 2020

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Per Olov Enquist è scomparso ieri, 25 aprile 2020, dopo una lunga malattia. Aveva problemi cardiaci, nel 2016 era stato colpito da un ictus. Autore di oltre venti tra romanzi e raccolte di saggi, oltre che di sceneggiatura e drammi, le sue opere sono tradotte all'estero in oltre ventitré lingue e hanno ottenuto numerosi premi e prestigiosi riconoscimenti internazionali. Enquist è sempre stato considerato la coscienza critica della società svedese.

La notorietà che Per Olov Enquist ha via via conquistato presso il pubblico italiano, sebbene considerevole, è imparagonabile a quella che, da tempo, accompagna il suo nome in Svezia, dove ha affiancato alla attività di romanziere quella di giornalista, di autore per il teatro e di sceneggiatore cinematografico, collaborando anche con Ingmar Bergman alla realizzazione di un lavoro dedicato alla vita di Selma Lagerlof, la scrittrice svedese che vinse il Nobel nel 1990. Cominciamo dunque da lontano. Cominciamo da quando nel 1964 apparve uno dei suoi libri più noti, Il quinto inverno del magnetizzatore, centrato sulla figura e le vicissitudini di un incantatore dietro al quale non è difficile scoprire i tratti del medico austriaco Franz Anton Mesmer.

Tra quelle pagine si realizzava il primo tentativo di Enquist di lavorare attorno ad alcuni aspetti formali e stilistici col tempo rivelatisi decisivi per i suoi lavori a venire. Inaugurava, inoltre, temi che investivano l'idea di una presunta "oggettività" dei fatti, messa continuamente in crisi dalla coesistenza di punti di vista contraddittori del narratore. E si dedicava, inoltre, a questioni di ordine meta-narrativo che investivano l'uso delle fonti e dei documenti storici.

A distanza di oltre quarant'anni tornano, nel suo ultimo lavoro, "Il libro di Blanche e Marie", qui temi e quegli ambienti austriaci che la avevano catturata ai suoi esordi, e che ruotavano intorno a figure come Mesmer da una parte e Charcot dall'altra. Sembra evidente che esista un filo rosso fra questi suoi lavori, ce ne vuole parlare?

Il mio interesse per la vicenda narrata nel Libro di Blanche e Marie è effettivamente di lunga data, e risale proprio al periodo in cui, nei primi anni '60, studiavo l'opera di August Strindberg. Mi ero soffermato, in particolare, sulla notevole influenza esercitata dalla lettura dell'Interpretazione dei sogni di Freud sullo scrittore svedese, allargando a poco a poco, ma in maniera irreversibile, il mio campo di indagine. Da Freud e Strindberg, figure che non a caso, seppur fugacemente, compaiono nella prima parte del Libro di Blanche e Marie, a Charcot il passo è stato breve. Ancora più breve se preso dall'altro verso, partendo proprio da Mesmer per risalire al filo rosso che lega Charcot, Freud e Strindberg. Fu nel corso di questi studi che mi imbattei nella figura, per certi versi enigmatica per altri avvincente, di Blanche Whitmann. Il suo nome ritornava spesso: era infatti una delle pazienti più in vista della clinica di Charcot, la Sâlpètriere.

Nel 1893, dopo la morte di Charcot che l'aveva trasformata in una sorta di "medium" e se ne serviva per le dimostrazioni effettuate nel corso delle sue lezioni pubbliche sull'isteria, attorno a Blanche calò il silenzio. In seguito sarebbe diventata assistente di Marie Curie, aiutandola nelle sue ricerche sul radio. Mi affascinava il doppio legame fra queste figure, ma le trovai interessanti anche prese singolarmente: da una parte Blanche, che era ancora immersa nella superstizione, nel "mesmerismo", in qualcosa di pre-scientifico, se vogliamo; dall'altra Marie Curie, figura modernissima, emblema di una mentalità scientifica ancora attuale. Scrivere su queste due donne, e su tutto quello che rappresentavano, mi avrebbe permesso di lavorare su quella soglia compresa tra un intero mondo che se ne stava andando e un altro, quello del "terribile XX secolo", che stava per avere inizio.

Dal suo racconto sembra evidente come ciò che l'ha portata a scrivere il suo ultimo libro sia frutto di una elaborazione molto complessa e molto meditata. Si direbbe che una volta inaugurato un tema lei non lo abbandoni più, è così?

In effetti, la mia prima idea fu quella di scrivere un dramma, cominciai perciò a raccogliere il materiale, ma nel frattempo non smisi di compiere altre ricerche, di lavorare ad altri progetti. Una, due volte ho tentato di scrivere un romanzo su Blanche, ma non mi è mai riuscito. Solo ora, a distanza di molti anni dall'inizio delle mie ricerche, sono riuscito a condurlo a termine. Sul mio computer sono rimasti una serie indefinita di file. Riguardano per un verso Blanche, donna misteriosa, difficile da capire, soprattutto in quello che fu il suo reale rapporto con Charcot: che cosa succedeva davvero alla clinica della Sâlpètriere? Questo il punto che mi interessa. E per l'altro verso i miei materiali indagano, in Marie, la donna lucida, con una vita quasi normale molto più semplice da comprendere. Mi restava, comunque, il problema di trovare una chiave narrativa per scrivere di queste due donne. Come coprire i buchi lasciati dalle fonti, il non detto, quello che comunque non poteva essere reso pubblico? Per fare un esempio, nella biografia che la figlia di Marie Curie dedica a sua madre, soltanto due righe sono rivolte alla discriminazione che quasi le costò la revoca del secondo premio Nobel, quello conferitole per la chimica: ed è proprio questa questione a occupare gran parte del mio romanzo.

"Vi furono in quel periodo", scrive la figlia di Marie Curie, "molti pettegolezzi che avvelenarono la nostra vita". A questo proposito, i vuoti documentari lasciano irrisolte alcune questioni. Lei come ha lavorato per colmare queste lacune?

Ho cercato di studiare il rapporto affettivo di Marie Curie con il collega Paul Langevin, di sondare i sospetti, di scoprire le gelosie e infine la vendetta della moglie di quest'ultimo, e ho cercato di capire come sia stata possibile una reazione tanto feroce dell'opinione pubblica del tempo a questo episodio personale, che la stampa dell'epoca considerò "l'ennesimo attacco alla cultura francese", alla famiglia e all'interesse della nazione, dopo la tragica sconfitta nazionale" patita "contro l'ebreo Dreyfus". È questo il lato che compete propriamente a uno scrittore: riempire i buchi, colmare le lacune, cercare fra le pieghe. Anche per questa ragione, forse, se proprio vogliamo, potrei definirmi uno "story-teller". Non considero propriamente Il libro di Blanche e Marie un romanzo storico, sebbene sia il frutto di lunghe indagini, di tentativi non riusciti, di studi abbandonati e ripresi nel tempo, che si sono sedimentati a poco a poco, come succede con i fondi del caffè.

Nel 1964, con la complicità di Leif Nylén e Torsten Ekbom, lei decise di isolarsi, con un buon numero di giornali, libri, riviste e realizzare un lavoro a più mani, partendo da una serie di frammenti. Ne venne fuori un libro I fratelli Casey, legato in qualche misura alle sperimentazioni del nouveau-roman. Nelle sue opere successive, l'uso del dettaglio e una certa propensione all'intertestualità, pur non rivestendo un ruolo primario in chiave formale, sembrano mantenere un'importanza strategica. Questi elementi sono stati importanti anche nella scrittura del "Libro di Blanche e Marie"?

Sì, ma per quanto riguarda I fratelli Casey, devo dire che si tratta di un testo particolarissimo, di un libro collage a sei mani, che i critici hanno definito "pop": non a caso ci lavorò Leif Nylén che sarebbe diventato membro di un gruppo rock-progressive molto noto in Svezia. Fu senza dubbio un esperimento a sé, ma tutto quel lavoro di taglio e di ricucitura lasciò tracce che si ritrovano anche in un altro libro al quale stavo lavorando in quel periodo. Si intitola Hess e porta avanti quella attenzione alla complessità dei linguaggi, che passando attraverso tutti gli altri miei romanzi, arriva in qualche modo fino all'ultimo.

Il suo interesse tende a rivolgersi all'arco di tempo compreso tra l'Illuminismo e il primo dopoguerra, come mai?

È una lunga vicenda. Da giovane volevo fare lo scienziato: sono un figlio del '900, un uomo come tanti che si è trovato a vivere nel periodo più catastrofico per l'umanità. Quando mi volto indietro e guardo alle origini di questo secolo, ritrovo ovunque le sorprendenti, talvolta disarmanti, commistioni tra razionalismo e misticismo, tra scienza e sacro, che riverso nei miei romanzi e nelle figure che li abitano. Direi che molte delle insidie del secolo da poco passato, nascono appunto durante l'Illuminismo e si rinnovano a fine 800 con le grandi contraddizioni tra mistica e ragione. È questo il crinale che mi interessa. Ho studiato per anni la storia della Danimarca, passata dalla Restaurazione seguita al tentativo di riforma illuminista di Struensee fino al periodo "scientifico" a noi più vicino, quello di Niels Bohr e degli altri scienziati che fornirono le premesse alla realizzazione della bomba atomica. Il primo '900 radicalizza l'idea che l'uomo possa controllare tutto: contro le premesse della ragione e della scienza ecco invece le guerre mondiali. La mia domanda ricorrente è, allora, quali sono i fondamenti del '900?

Sembra proprio che lei prediliga lavorare su certe zone di transito e di confine che a partire quantomeno dall'Illuminismo segnano, non sempre in positivo, il corso della storia europea. Queste zone, sono attraversate da figure a loro volta contraddittorie, come Mesmer o come Charcot, appunto, perché con loro condivide la naturale attrazione per i continenti inesplorati, e una fiducia profonda e razionale nell'insufficienza della ragione.

Effettivamente, nei miei romanzi ricorre un soggetto che, suo malgrado, si trova a metà strada fra un atteggiamento razionale e impulsi di segno contrario. Le mie sono figure di confine, particolarmente interessanti quando si presentano in epoche situate al volgere di un secolo, prima o dopo una rivoluzione. Io stesso mi considero una persona estremamente razionale, ma ho passato l'infanzia nel nord della Svezia, dove era molto forte l'influsso della setta degli herrnutisti, che alimenta una sorta di "mistica del sangue". Il mio piede sinistro è rimasto immerso in questo fango, e io non posso non tenerne conto.

Si può dire che il suo interesse principale sia rivolto a indagare le specificità dell'essere umano e i condizionamenti che riceve dal proprio tempo e dalle sue strutture politiche. Il suo essere soggetto al potere dello Stato, o a quello della ragione, o ai pregiudizi, o il suo essere vittima di radicali esclusioni. Nella sua opera c'è una costante tensione fra etica individuale e collettiva, tra estetica e morale: lei come la interpreta?

Il fatto è che, di certo, sono in buona misura uno scrittore politico. Sui giornali ai quali collaboro scrivo da sempre sia articoli di letteratura che politici. Come columnist sono assolutamente esplicito e molto tagliente, non rinuncio mai al mio punto di vista, che è quello di un socialdemocratico. Quando invece scrivo i miei libri sono un'altra persona, anche se trattano di fatti politici. Nei Legionari, per esempio, un romanzo pubblicato nel 1968, raccontai esattamente ciò che successe quando la Svezia consegnò all'Unione sovietica centosessantasette rifugiati baltici: non si trattava solo di descrivere quel fatto, ma di restituire una particolare atmosfera, un contesto storico e politico molto speciale. Quel che mi interessa è sempre situato nei punti critici della storia.

Intervista pubblicata originariamente su il manifesto, 13 maggio 2007 con il titolo "Nelle trame di Per Olov Enquist la lotta tra misticismo e ragione"

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Written by Marco Dotti

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