Per Olov Enquist, una vita

Marco Dotti
9 min readApr 26, 2020

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Forse il solo modo di scrivere una biografia è non scriverla affatto, o scriverla in terza persona. Per Olov Enquist ha scelto la seconda strada e con Un’altra vita, tra i suoi libri più intensi (rtradotto da Katia de Marco per i tipi di Iperborea, 2010) si è affidato all’ostinazione, rinunciando al principio di ragionevolezza che, se ascoltato, gli avrebbe di certo suggerito tutta un’altra scelta. “Un tempo”, scrive Enquist, “nei miei sogni segreti, pensavo che fosse possibile mettere insieme ogni cosa in modo che tutto fosse compiuto, concluso. E che alla fine si potesse dire: così è stato, è così che è andata, ecco tutta la storia”. Fin dalle prime pagine, Enquist suggerisce dunque al lettore, ma lo suggerisce sottotraccia, che è di questa impossibilità di mettere in ordine le cose, che tratterà il libro.

Un’impossibilità che non coincide evidentemente con la rinuncia, perché rinunciare significherebbe abbandonarsi a un più banale, e forse anche più bieco, buonsenso e, in definitiva, scoprirsi morti, impossibilitati ad accedere a quell’altra vita che si apre superato lo sgomento della pagina bianca.

L’autobiografia è invece, qui, proprio la possibilità di mappare il percorso di rigenerazione (di resurrezione, parla Enquist) che conduce da una vita all’altra: “andare contro ogni buonsenso è comunque un modo per non arrendersi. Se avessimo più buonsenso, ci arrenderemmo”. L’ostinazione spinge l’autore a scrivere in terza persona e osservarsi da un punto di vista terzo, scrutando al tempo stesso ricordi e sensazioni che appaiono più “frammenti” da cui prendere congedo, che elementi di un’unica storia da raccordare.

Una presa di congedo dai fantasmi

Nella stazione abbandonata di Skelleftea, scena che apre il libro, il congedo (e appunto non è paradossale che il libro si apra con un congedo) si consuma nei confronti di chi resta, ossia i vecchi compagni di un viaggio all’inferno, stesi sugli scalini in preda all’alcol e abbandonati senza un saluto. Enquist li osserva, riconosce l’amico Jurma e gli vengono alla mente — è il 14 aprile 1998 — le parole e le immagini del video di una canzone di Bruce Springsteen, Philadelphia. Springsteen cammina per strada, passa accanto a una fabbrica dismessa, non si guarda attorno, ma attorno a lui ci sono tre uomini che frugano tra la spazzatura, anche se neppure loro lo guardano. È solo un attimo, ma c’è qualcosa di familiare in quel passaggio e persino in quell’indifferenza. Si ha l’impressione, nota Enquist, che siano “suoi amici d’infanzia, ma sono rimasti lì, mentre lui se n’è andato”. Perché oltre a vicende e incontri straordinari, di cui è piena la sua esistenza (dall’amicizia con Olof Palme e Bergman, alla carriera di atleta olimpionico, fino alla partecipazione come cronista alle Olimpiadi di Monaco del 1972), il libro racconta una parte oscura e perturbante, certamente poco nota, dell’autore svedese: la caduta nell’alcolismo, l’impossibilità di scrivere, il ritorno frenetico alla scrittura, l’uscita dal tunnel, il congedo dai fantasmi, non solo dai compagni, di quella brutta vicenda dell’esistenza. Enquist assume qui due modelli e due storie, che in qualche misura si trova a doppiare, facendole parte di sé e superandole. Due storie diversamente esemplari, che gli consentono di lavorare sul piano autobiografico servendosi di un’aneddottica esterna. Da un lato, un aneddoto nella vita di Jan Sibelius, appreso in giovane età da sua madre e relativo all’ottava sinfonia del compositore finlandese, forse mai composta o forse distrutta, che Enquist sogna di riscrivere. Dall’altro, la vita e l’opera della scrittrice Selma Lagerlöf, che nascose per tutta la vita il dramma di un padre alcolista. Alla Lagerlöf, nel 1998, Enquist avrebbe infine dedicato una sottile opera teatrale, Bildmakarna (I cineasti), portata in scena e poi sullo schermo da Ingmar Bergman.

Preda di chissà quale demone dell’alcol, il Sibelius di Enquist sembrava “avesse guidato una Chevrolet in preda all’ubriachezza e non fosse riuscito a tenere la strada e fosse finito in un fosso”. Lo colpiscono le sue menzogne, quel rassicurare tutti, compresa la moglie devota, sempre in preghiera per la sua salvezza, che presto avrebbe scritto l’Ottava Sinfonia, la sua ultima. Ma non appena si sedeva al suo scrittoio con la penna in mano per scrivere le note — così aveva raccontato la madre al quattordicenne Per-Ola — subito veniva assalito dal demone dell’alcol e sopraffatto dal desiderio della bottiglia, “dopodiché si ritrovava come il becchino del Carretto fantasma di Selma Lagerlöf, ovvero ubriaco fradicio”. Per circa quarant’anni, il compositore finlandese aveva lottato con i fantasmi, continuando a fare promesse “a tutti quelli che aspettavano con gli archetti alzati”, rassicurandoli che mancavano solo pochi righi alla chiusura del tutto. Ma Sibelius era morto, senza realizzare il desiderio, diventato incubo, di una vita. La vicenda scosse a tal punto Enquist che, accompagnandolo nel travaglio del suo alcolismo, ritornò ossessiva davanti al foglio e al titolo del romanzo: dopo quindici anni di tormento, come il calamaro gigante avvinghiato al Nautilus di Jules Verne, quel libro lo trascinò sull’abisso segnandone infine la rinascita: il titolo con il quale lo conosciamo è La biblioteca del Capitano Nemo (trad. Carmen Giorgetti Cima, Giano, 2004).

Da un romanzo a un altro

Un romanzo scritto quando ancora passava dalla gioia allo sconforto, senza riuscire mai a riempire più di una sola pagina al giorno illudendosi che ogni parola sarebbe stata l’ultima. Indicativo il finale di Nemo ripreso in Un’altra vita: “”Così è stato, è così che sono andate le cose, questa è tutta la storia.” E così sarebbe finita. Non avrebbe mai più scritto un romanzo, dichiara. Che ingenuo”. Pubblicato nel 1991, La biblioteca del Capitano Nemo ebbe invece ben più di un seguito:la raccolta di saggi I cartografi, i romanzi Il medico di corte (Feltrinelli, 2006), Il viaggio di Lewi (Iperborea, 2004), Il libro di Blanche e Marie (Iperborea, 2006), la storia per bambini La montagna delle tre grotte (Feltrinelli, 2004), e quattro opere teatrali. “Era come se si fosse aperto qualcosa che era rimasto chiuso per molti anni”, osserva Enquist, all’improvviso impossibilitato a fermarsi. Ma davvero, si chiede, il Capitano Nemo gli ha salvato la vita? Non può darsi una risposta, perché “non è ben sicuro di cosa sia stata la sua vera vita. Scrivendo quel libro, ha toccato una serie di cose, altre le ha lasciate fuori. Era poi raccomandabile guardarsi indietro, come la moglie di Lot? Doveva davvero sedersi, come faceva sua madre, sulla riva del lago a Granholmen a guardare la superficie dell’acqua per un’intera estate? O perdersi in una casa verde? Cosa avrebbe scelto di ciò che era stata la verità, nella strana vita che aveva vissuto? Per capire perché alla fine era stato salvato. Scriveva e scriveva”.

Nato nel 1934, a Hjoggböle, nella Svezia settentrionale, a un migliaio di chilometri da Stoccolma, Enquist porta inscritto nel proprio nome, Per-Ola, il nome un fratello maggiore nato morto, o nato vivo e subito deceduto secondo altre versioni dei medici. Fotografato nella bara, scoperto sull’album di famiglia, “il morticino aveva l’aria simpatica”. Due anni dopo era nato lui, battezzato con lo stesso nome, e sua madre gli aveva spiegato che “era il bambino precedente, di nome Per-Ola, che era morto, mentre il bambino seguente, ovvero lui, con lo stesso nome, era vivo. Faceva fatica a capire chi era chi. Gli sembrava poco chiaro, leggermente sospetto. Non è che era lui il corpo fotografato nella bara, mentre suo fratello era vivo?”

Si spera sempre in un miracolo. Se non si spera, non si è umani. E in fondo qualche specie di umano lo si è pur sempre.

È il momento? No, non ancora.

L’episodio, che ricorda in parte la vicenda di Vincent Van Gogh (battezzato con nome di un fratello morto) a suo tempo si mischiò a uno scandalo di famiglia — un “vero” scambio di bambini al centro di una querelle giudiziaria che infiammò la fantasia degli abitanti della regione — e Enquist lo rivisse tra le pagine della Biblioteca del Capitano Nemo, evidentemente uno dei libri a cui tiene di più. Ma quello stesso episodio portò anche Enquist a farsi le prime domande sul senso di una possibile rigenerazione, vero punto nodale di Un’altra vita. Il piccolo Enquist, davanti alla fotografia del fratellino, come davanti a un doppio troppo intensamente perturbante, non osa chiedere; ma è preoccupato, e quella fotografia produce in lui una risonanza che lo accompagnerà per tutta la vita. E se fosse stato lo stesso bambino?

Se non esistessero due Per-Ola, ma un solo Per-Ola nato, morto e poi rinato ancora? Una storia simile venne raccontata a Picasso, che secondo l’agiografia nacque morto, e fu richiamato in vita dal fumo del sigaro che uno zio gli avrebbe soffiato in faccia. Oppure, ed era questa l’ipotesi più inquietante per Enquist, è possibile che nella sua prima vita il morticino sia stato “accolto tra i giusti per sedere alla destra del Padre, e dopo era diventato il bambino, quello che veniva chiamato Per-Ola, con lo stesso nome!!! — e quel bambino nato qualche tempo dopo era tra i peccatori rimasti su questa terra, che sarebbero bruciati all’Inferno nel giorno del Giudizio?”.

Tutto questo consegnò “Per-Ola” a un’incertezza costitutiva che cercò prima di diluire nell’alcol, e infine di chiarire, almeno nei suoi margini oggettivi, dissipando alcune dicerie sull’accaduto, con un esercizio “di verità in forma di romanzo” confluito nell’episodio di Eeva-Lise della Biblioteca del Capitano Nemo. Le voci, a scuola, in paese, nella regione e infine nella sua testa, dicevano e ridicevano che “era stato lui a essere scambiato all’ospedale di Burea. Ne fu indignato. Cosa non si può inventare a partire da una storia del genere! Che forse in realtà era stato il fratello morto, il cadaverino nella bara, a scrivere i libri; no, che era stato lui a scrivere quei libri farneticanti, ma a nome del fratello”.

I confini dell’esperienza

Tra il 1998 e il 2000, quando Ingmar Bergman porto in prima in scena al Dramatean di Stoccolma e poi in televisione Bildmakarna, la sua opera sul dramma interiore di Selma Lagerlöf, Enquist si porrà esplicitamente il problema, raddoppiandolo nel testo, del rapporto tra la vita e l’opera. Avrebbe mai potuto la scrittrice, premio Nobel nel 1909, raccontare così a fondo il dramma dell’alcol, se non avesse vissuto in famiglia e rivissuto in sé questa esperienza? Anche in Bildmakarna, come in Un’altra vita, il rapporto con l’esistenza non è “mediato”, casomai è “raddoppiato” dall’opera che presenta sempre e comunque, ma senza ingenuità, una soglia di possibilità e rigenerazione e, al tempo stesso, lo strumento di distillazione del male. Per la prima di Bildmakarna, ricorda Enquist, l’angoscia di Ingmar Bergman divenne tangibile, pari forse a quella di Victor Sjöström, “personaggio” che nella pièce confligge con la Lagerlöf.

Ogni genere di scusa veniva addotta dal regista per impedire a Enquist di assistere alle prove, scuse che erano dei “piccoli capolavori letterari”. Alla fine, quando la serata della prima si stava avvicinando, diventò inevitabile accogliere Enquist a teatro. “Un Bergman risoluto ma incredibilmente teso, con la voce impostata sul tono di comando, indica minuziosamente la poltrona in cui deve sedere l’autore, terza fila, numero 64. Aggiungendo che lui stesso sarà seduto dietro, in diagonale, il che significa controllototale su tutti i movimenti e le espressioni dell’autore. E precisando che, a parte loro, la sala sarà vuota, che sicuramente andrà tutto storto, che fin da ora vuole scusarsi per la sua inadeguatezza, che non è assolutamente colpa degli attori, che in linea di principio sono eccezionali, che non si deve tossire, che è felice perché l’autore non è raffreddato; e poi finalmente buona visione! Declamato con voce stentorea”.

Un dilemma fisiologico

Verso la fine del primo atto c’è un lungo monologo di una ventina di minuti, a interpretarlo è Anita Björk. Il monologo è “brutale e toccante, e racconta della codipendenza dall’alcol del suo personaggio, Selma Lagerlöf, e di come l’alcolismo del padre le ha distrutto la giovinezza. E di come ha sempre mentito sul vizio del bere del padre, per tutta la vita. Anche nel discorso di ringraziamento per il premio Nobel”. Ma proprio quando la tensione è massima e il silenzio più profondo e il monologo sta per iniziare, Enquist si accorge all’improvviso di dover andare in bagno.

“Non è un bisogno ordinario, di solito non ha nessun problema a trattenersi. È un’urgenza quasi vulcanica, probabilmente interamente psicologica, perché sa che non c’è via di scampo”. Il rispetto terrorizzato per Bergman lo assale. Ma al tempo stesso “il bisogno di pisciare aumenta con una pressione inaudita”, mentre di pari passo cresce l’intensità dell’interpretazione della Björk. Lasciare la sala è impensabile, Bergman non glielo perdonerebbe mai, sarebbe capace di mandare tutto all’aria. Trattenersi oppure farsela addosso? Questo il dilemma di Enquist. Ma “in quella lotta per la prima volta prende forma anche per lui il rispetto, quasi il timore, che il mondo del teatro, al di là di ogni confine, nutre per il regista svedese Ingmar Bergman”. Alla fine, Enquist riesce a trattenersi, scappa via durante l’intervallo e infine racconta tutto a Bergman, il quale, da parte sua, incredibilmente divertito, gli “conferma che non glielo avrebbe mai perdonato, ma si congratula sinceramente per la sua battaglia di fede e per la resistenza che aveva portato alla vittoria finale. Chiede a Enquist se ha pregato Dio. Lui smentisce”. Ma in fondo, suggerisce Enquist, che cos’è un atto di fede se non andare contro ogni buon senso, trattenersi fino al dolore per non turbare Anita Björk e non adombrare Bergman? Ma se avessimo buonsenso, si legge in apertura di Un’altra vita, non scriveremmo mai, non leggeremmo mai, non rideremmo mai, se “avessimo più buonsenso, ci arrenderemmo” e basta all’evidenza delle cose, e dei loro demoni.

Articolo originariamente pubblicato su Il manifesto del 16 giugno 2010 con il titolo Arcipelago Enquist

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