Roma è «l’unica città al mondo che sembra un’autopsia» (Julien Gracq)
Roma è come una Sodoma sonnolenta, «dove il doppio comando è di regola, dove l’ufficiale sembra colpito non soltanto dal ridicolo, ma anche da una quieta e simpatica inconsistenza, dove tutto, con disinvoltura, naturalezza e bonomia, sembra funzionare principalmente in nero».
Originariamente pubblicato con il titolo “Roma città-cadavere sotto la lente di Gracq” su il manifesto, 23 febbraio 2010
Allo stato civile era registrato come Louis Poirier, insegnante di storia e geografia nei licei, ma già dal 1938 quando esordì ventottenne con Nel castello di Argol, aveva deciso di firmare con un affascinante nome d’arte: Julien Gracq. Amava troppo Julien Sorel, il protagonista del Rosso e il nero di Stendhal, e insieme l’eco delle cadenze compassate dell’antica Roma (Gracq è un richiamo ai Gracchi) per non offrire loro un doppio tributo e inscriverlo nel nom de plume dietro il quale si sarebbe fatto conoscere ai suoi lettori.
Non pochi, visto il carattere schivo di questo autore che nel 1951 rifiutò preventivamente il premio Goncourt. Fedele alla sostanza e alla lettera del suo La littérature à l’estomac, un formidabile pamphlet pubblicato l’anno precendente e rivolto contro le conventicole letterarie, Gracq non si recò alla cerimonia di consegna del premio, che gli venne tuttavia nominalmente attribuito per La riva delle sirti da una giuria presieduta dal detestato Raymond Queneau.
Nato il 27 luglio 1910 a Saint-Florent-le-Vieil, nella «provincia profonda» della Loira, non distante da Bretagna, Atlantico e Bassa Normandia, Gracq rimase legato ai luoghi d’origine, traendo dalla nebbia e dalla misteriosa religiosità bretone una costante ispirazione. Ispirazione mediata dalle letture e da una affinità con l’idea surrealista di Breton al quale, non a caso, nel ’48 dedicherà un importantissimo saggio.
Surrealista sui generis, appassionato wagneriano, per un breve periodo attratto dalla passione politica nelle file del partito comunista, Gracq non aderì ad alcuna scuola e a nessun modello di avanguardia, coltivando casomai una vicinanza di interessi con autori «solitari» e atipici come Tolkien. «Per me, a dodici anni, c’è stato Poe — a quindici, Stendhal — a diciotto, Wagner — a ventidue Breton. E prima ancora», scrive in Letterine, «Jules Verne». Proprio le note di vario tenore raccolte col titolo Letterine e pubblicate nel 1967 segneranno una svolta, nell’opera dello scrittore francese, con l’abbandono della «letteratura» d’invenzione a tutto vantaggio della scrittura autobiografica indifferente ai generi. Appartiene alla tarda fase di questo secondo periodo anche Intorno ai sette colli, pubblicato nel 1988, dopo otto anni di gestazione e proposto nel 2009 da Mattioli 1885 in prima traduzione italiana per la cura di Paolo Luzi.
I romanzi di Gracq — su tutti proprio La riva delle sirti — iniziano sempre con l’arrivo in un castello o nei pressi di una foresta di un viandante solitario. Le note di Intorno ai sette colli ripresentano quella che appare come una costante della sua opera: il nesso tra passaggio e paesaggio (spesso visto da un treno in movimento).
Diviso in tre parti — «Nei pressi di Roma», «A Roma» e «Lontano da Roma» — Intorno ai sette colli è una straordinaria microcartografia condotta secondo lo schema dell’«approssimazione» (a un luogo o a uno stato della mente) inaugurato da Ernst Jünger, autore col quale Gracq presenta diverse affinità, oltre al fatto di essergli stato legato in amicizia.
A Roma, scrive, «tutto è alluvione e tutto è allusione». Detriti immaginali e depositi materiali lasciati dai secoli «non soltanto si accatastano, ma si incastrano, si compenetrano, si ristrutturano e si contaminano gli uni con gli altri». Non macerie soltanto, però. Perché nella lente di Gracq, autore che ha il passo lento di chi sonda la decadenza nei suoi scricchiolii impercettibili servendosi di Spengler e Toynbee, «il terreno culturale che ricopre la città» risulta più insondabile dello smalto ideale che riveste le rovine di antichi palazzi. Così, il Foro o il Campidoglio gli appaiono «seppelliti sotto le parole». Città deludente, che non ha un fiume, essendo il Tevere poco più che un corso d’acqua secondario, anche se quel corso canalizza «il fluire della Storia». Città di improbabili municipi, che da secoli si regge secondo schemi ignoti alla ragione economica e passa dalle indulgenze premoderne alle modernissime tangenti, «come in certi paesi dell’Est, tutto prospera grazie ad attività ignote al sistema vigente».
Roma è come una Sodoma sonnolenta, «dove il doppio comando è di regola, dove l’ufficiale sembra colpito non soltanto dal ridicolo, ma anche da una quieta e simpatica inconsistenza, dove tutto, con disinvoltura, naturalezza e bonomia, sembra funzionare principalmente in nero».
Non soltanto le attività lucrative, perché anche l’arte, la cultura, i salotti e persino la «cultura popolare» hanno assimilato questo doppio binario delle ciarle a voce alta e dei commerci sottobanco, tipici di una vita che già Rabelais, servendosi della figura dell’«Isola sonante» nel Gargantua e Pantagruel, aveva messo alla berlina.
Dispersa come un immenso work in progress (l’espressione è di Gracq), la città non appare in grado di condensare la propria anima in un solo grande ricordo ed è incapace di «portare all’incandescenza un punto» preciso del tempo. Soprattutto ora, che alla mistica dell’antico si è sovrapposta quella che l’autore definisce «l’era del prêt-à-habiter». È qui che ha inizio l’alienazione, dall’impossibilità di vivere una città, non solo in una città. Impossibilità di vivere, se non in case in cemento precompresso e gabbie metalliche che non appartengono all’uomo, addicendosi più a «bestiame umano». È come se Roma contraddicesse la propria vocazione metastorica, ingrandendosi con l’uso di materiali che non possono generare altro che città-cadavere, prive di macerie e di rovine.
Se pochi mesi dopo averla proclamata capitale d’Italia, vi era chi pensava di trasformarla in una nuova Chicago, con tanto di progetti di sopraelevate che avrebbero reso il panorama sottostante un’immensa suburra, a distanza di un secolo Gracq si chiede cosa nascerà dall’intricata stratificazione di una «città-cadavere» tardo moderna. Forse non resteranno che ammassi di ferro impossibili da ristrutturare, accanto ai quali sorgeranno sempre nuovi edifici in un processo senza fine. Era il 1976, quando Gracq iniziava a scrivere le proprie note. Già allora, per lui, Roma era «la sola città al mondo che assomigli a un’autopsia».