Simone Weil, la marsigliese

Marco Dotti
9 min readAug 26, 2023

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Dagli appunti sul colonialismo alle riflessioni sulla necessita dell’incontro
tra la civilta occidentale e quella orientale: l’insegnamento della filosofa per armare difese culturali in grado di contrastare ogni violenza e aggressività

Simone Weil raggiunse Marsiglia nel mese di settembre del 1940. Il 14 giugno, le truppe della Wehrmacht avevano occupato Parigi, marciando indisturbate sotto l’arco di Place de l’Etoile, e in pochi mesi, mentre il Paese si ritrovava spaccato a metà dall’armistizio, e i porti settentrionali restavano chiusi alle partenze e al traffico di merci, la città focese aveva visto crescere i propri commerci, e moltiplicarsi il numero di fuoriusciti e di esiliati che, notte e giorno, affollavano le banchine dei suoi dodici moli.

Centinaia di persone, provenienti da ogni parte d’Europa, si ritrovavano stipate al fianco di casse d’armi, tabacco, vino e generi coloniali, alla disperata ricerca di una via di fuga verso Londra o New York e di un visto sempre più difficile da ottenere. Con una parte della Francia occupata dai tedeschi, e l’altra nelle mani dei prefetti di Vichy, Marsiglia si trovò a ricoprire l’insolito ruolo di «doppia» capitale di una nazione dimezzata, ridotta a governare a proprio nome, ma per conto altrui.

In poco tempo, infatti, in quanto posto ideale per trovare coperture, appoggi logistici, stampare documenti e reperire armi, grazie alla complicità dei potenti clan corsi legati alla famiglia Guerini, la città divenne una sorta di centro chiave della resistenza, accreditandosi, al tempo stesso, come una vera e propria «capitale letteraria in esilio». Mentre Breton si imbarcava per gli Stati Uniti, i figliocci di Barrès e Claudel inauguravano gli anni bui del collaborazionismo, piegando la schiena al nemico per «preparare la strada» — sono parole di Charles Maurras, mediocre scrittore, ma buon consigliere di Pétain — «a un futuro di pace per il nostro Paese». Nel frattempo, Pierre Drieu La Rochelle si divertiva a mandare in frantumi la N.R.F. che Jean Paulhan era stato capace di trasformare, nonostante tutto, in una delle poche isole senza dogmi nell’acqua solitamente non troppo limpida delle accademie francesi.

La stagione dei «Cahiers du Sud»
Il testimone morale del lavoro di Paulhan ricadde, in un certo senso, sui «Cahiers du Sud», una rivista marsigliese già attiva da almeno un ventennio, che aveva la propria sede nel cuore del Vieux-Port, dove la vita del milieu si mischiava a quella della resistenza (la vicenda dei «Cahiers» è magistralmente ricostruita nel volume di Alain Paire, Chronique des Cahiers du Sud, 1914–1966, Imec- Institut pour la Mémoire de l’Edition Contemporaine, 1993, mentre per un’analisi del contesto socioculturale in cui essa si sviluppa è utile il lavoro di Gisèle Sapiro, La Guerre des écrivains, 1940–1953, Fayard, 1999).

Nati nel 1925 sulle ceneri della rivista «Fortunio», grazie a Jean Ballard, che ne divenne direttore, nel corso degli anni i «Cahiers» avevano ospitato interventi di Michaux, Leiris, Péret, soprattutto Daumal, o, ancora, di quei «dissidenti», surrealisti atipici come Artaud, Desnos o Masson, che da tempo avevano intuito la necessità di rompere con i padri e i «padroni» del movimento. Seguendo un consiglio di André Gaillard, Ballard si mise in contatto, stabilendo con loro un proficuo rapporto di collaborazione, con due intellettuali che, negli anni del conflitto, riuscirono a imprimere una svolta silenziosa, ma netta, alla «politica», editoriale e non, della rivista: Joë Bousquet ed Émile Dermenghem.

Durante il periodo marsigliese, grazie forse al rinnovato fermento della città, Simone Weil riempì la maggior parte dei suoi straordinari quaderni, passando al vaglio critico molte delle sue precedenti riflessioni, aumentando l’occasione, il numero, e l’intensità, degli incontri e dei confronti con la comunità sottile di complici-lettori, in un rapporto di scambio da cui la sua opera traeva linfa e vigore.

È quanto affiora dall’analisi di Jean-Michel Rey, che nel recente Les promesses de l’£uvre. Artaud, Nietzsche, Simone Weil (Desclée de Brouwer, 2003, pp.232 2) porta a termine un discorso sullo «statuto fiduciario» del testo poetico avviato nel precedente Le Temps du crédit. In alcuni tratti della sua opera, come nel caso della sua riflessione sulla guerra di Troia e degli scritti anticolonialisti, scrive Rey, è come se lo sguardo attento della Weil oscillasse sapientemente tra l’economico, il politico e l’«estetico», mostrando, nello scarto che le parole producono, l’ineliminabile presenza di una guerra latente, mascherata dalla «confidenza con le forme», occultata dall’apparente mancanza di una posta in gioco.

Tra gli altri, Simone Weil ritrovò René Daumal, che la indusse allo studio del sanscrito e le affidò una copia, traslitterata di suo pugno, della Baghavadgîtâ, e, soprattutto, ebbe modo di instaurare un profondo rapporto di stima con quel Ballard attorno alla cui rivista, i «Cahiers du Sud», si era organizzata una vera e propria «resistenza di penna». Fu proprio grazie a Ballard che la Weil venne in contatto con uno dei principali protagonisti del rinnovamento della letteratura occitanica, l’etnografo e poeta René Nelli, e con il circolo che si riuniva a Carcassonne, attorno al letto in cui Joë Bousquet, paralizzato da una ferita riportata durante la prima guerra mondiale, era costretto a trascorrere i propri giorni.

Guardando all’Occitania
Ballard le prestò infine un volumetto sull’eresia catara, scritto da Déodat Roché, invitandola a collaborare a un progetto che, dal 1938, lo vedeva impegnato: un numero monografico della rivista interamente dedicato alla cultura occitanica. Poco tempo dopo, Simone Weil gli consegnò i due articoli, entrambi siglati con lo pseudonimo Émile Novis, che appariranno nel 1943, dopo la sua morte, quando il corposo fascicolo, titolato «Le Génie d’Oc et l’homme méditerranéen», vedrà finalmente la luce, non senza suscitare scandalo e polemica tra i conservatori di Parigi. Ricorda René Nelli: «Quando i `Cahiers du Sud’ dedicarono un numero speciale al Génie d’Oc, dovettero subire, da parte di scrittori troppo strettamente `francesi’ critiche tanto meschine, quanto rivelatrici. Avevamo appreso, dopo questa nuova crociata, che il numero della rivista lasciava dietro di sé un profumo pericoloso e `sospetto’. Il Génie d’Oc incarnava, per questi austeri censori, l’Oriente malsano, i giardini sull’Oronte, l’ebbrezza semita (araba e giudea), l’eresia dissolutrice, la libertà che degenera in licenza, la negazione, in altri termini, dell’ordine latino (o cartesiano che fosse)».

La Weil doveva rimanere a Marsiglia, scrive Gabriella Fiori, «per viverci la sua tregua», e seppure non vi sia stata a lungo è proprio qui che si cristallizzano tutte le sue convulse esperienze anteriori, «dalla vita di fabbrica alle meditazioni di politica e di storia, dalle letture religiose allo studio dei Greci, dall’impegno sindacale alle riflessioni giuridiche». Tutto confluirà «in una serie di espressioni pratiche e speculative scaturite da un orientamento interiore sempre più chiaro».

Accanto alla Grecia classica, all’Oriente, al mondo arabo, è proprio l’Occitania a rappresentare ora tanto una fonte primaria di ispirazione e di riflessione, quanto un punto particolarmente critico attraverso cui forzare la lettura della storia che a quelle riflessioni fa da supporto. «Nulla vale la pietà verso le patrie morte», scrive quasi calcando le parole di Bousquet, «nessuno può sperare di resuscitare questo paese d’Oc. Disgraziatamente lo si è ucciso fin troppo bene. Questa pietà non minaccia in nulla l’unità della Francia, come certuni dicono di temere. Se pure si ammettesse che è consentito celare la verità quando questa è di pericolo per la patria, e se ne può almeno dubitare, in un caso simile tale necessità non sussiste. Questo paese, che è morto e che merita di essere pianto, non era la Francia. Ma l’ispirazione che possiamo trovarvi non concerne la suddivisione territoriale dell’Europa. Concerne il nostro destino di uomini».

Frammenti di vita sotto le macerie
Lo studio della Chanson de la croisade albigeoise, redatta «dai vincitori» sullo sfondo della repressione catara avviata nel 1208 dal papa Innocenzo III, la segnerà profondamente. Affascinata — l’eco tornerà mesi più tardi nelle riflessioni sullo sradicamento — dalla loro idea di patria, che i tolosani, stretti d’assedio nella rocca di Montségur, continuano incessantemente a chiamare «langage», linguaggio. «L’uomo d’oc», ricordava Joë Bousquet, «rammenta che è il primogenito della luce, cosa vera, almeno nella sua lingua, dove è la parola la regina dell’azione». Dopo la crociata, scrive ancora Simone Weil nell’Agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, il primo degli articoli affidati a Ballard, «l’Europa non ha mai più ritrovato allo stesso livello la libertà spirituale perduta per effetto di questa guerra. Infatti nel XVIII e XIX secolo soltanto le forme più grossolane della forza furono eliminate dalla lotta delle idee; la tolleranza allora in auge finì col contribuire alla costituzione di partiti cristallizzati e sostituì alle costrizioni materiali le barriere spirituali.. Ma il poema di Tolosa ci mostra, con il silenzio stesso mantenuto al riguardo, quanto il paese d’Oc, nel XII secolo, fosse lontano da ogni lotta di idee».

Fra le prime persone che Simone Weil cercò di contattare, durante i mesi passati a Marsiglia, oltra a Bousquet, figura proprio Émile Dermenghem. Orientalista di fama, studioso della tradizione orale marocchina, autore di studi sull’influenza esercitata dalla poesia araba classica e andalusa su quella trobadorica, ma anche di una nota monografia su Tommaso Moro, aveva coordinato, nel 1935, un numero della rivista di Ballard interamente dedicato all’Islam, per cui aveva coinvolto figure tra loro diversissime come Louis Massignon e Guénon. Fu a lui che la Weil si rivolse per avere informazioni e contatti in vista del trasferimento in Marocco a cui da anni stava pensando. Voleva rendersi conto degli effetti della colonizzazione sull’animo della popolazione, e capire, infine, «che cosa resta ancora, malgrado la dominazione, di vivo, di autentico, di veramente interessante, vestigia di un passato più glorioso e presagio forse di un migliore avvenire». Proprio questa necessità di cercare frammenti di vita sotto le macerie, è alla base di un articolo che la Weil scrisse a Londra nel 1943, poco prima di morire, proposto col titolo Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente (Medusa, 2003), in un prezioso volumetto a cura di Domenico Canciani. La stessa casa editrice, sempre per la cura di Canciani (coadiuvato, nell’occasione, da Maria Antonietta Vito) ha dato alle stampe un’antologia che, alla presentazione e alla riscrittura del mito di Elettra da parte della Weil — animata dalla preoccupazione di renderlo immediatamente comprensibile agli operai — affianca un breve testo teatrale di Marguerite Yourcenar (Elettre, 2004). Fra il 1937 e il 1943, anno della sua scomparsa, Simone Weil sviluppa un acceso sentimento anticolonialista e una repulsione per l’idea, che circolava trasversalmente anche in ambienti socialisti, che la colonizzazione apportasse «ragione e civiltà» agli «sventurati sudditi delle colonie».

Appunti sul colonialismo
Al contrario, scriveva la Weil, i problemi della colonizzazione si pongono quasi esclusivamente in termini di forza, e il processo di colonizzazione ha inizio non per una spinta pedagogica, ma con «l’esercizio della forza nella sua forma pura, ossia la conquista». Un modello, quello innestato dalla conquista, destinato ad alimentate l’idolatria di quella «macchina anonima, cieca, produttrice d’ordine e di potenza» che passa sotto il nome di Stato, a cui molti sembrano disposti a riconoscere spinte «messianiche» e scopi di «civilizzazione».

Se i quaderni di Marsiglia sono pieni di note su Elettra, «sorella di sventura», la riflessione sul colonialismo parte da molto prima. Già nel corso delle lezioni al liceo Saint-Quintin, nell’ultimo anno del suo insegnamento (1938), il problema delle colonie appare alla Weil come determinante, tanto da portarla ad articolare e muovere le proprie riflessioni attorno alla nozione cardine di forza. Nozione a sua volta piegata, fino a farla diventare, commenta Canciani, «una chiave interpretativa dell’intera storia dell’Occidente». Rispetto ad altri articoli dedicati allo stesso tema, il testo qui proposto all’attenzione del lettore si frappone tra la previsione di una futura articolazione politica, prefigurata nell’Enracinement, e il grande lavoro sulla civiltà catara svolto, appunto, nei mesi trascorsi a Marsiglia, e ha il vantaggio, nonché il merito, di collocare il problema in un contesto di riflessioni molto più ampie sul ruolo dell’Oriente e dell’Occidente.

Simone Weil insiste molto sulla necessità dell’incontro tra civiltà, affinché possano difendersi da una minaccia che individua nell’aggressività americana. «La civiltà europea — scrive mostrando quanto la lezione di Dermenghem le sia ancora ben chiara — è una combinazione di spirito orientale con il suo contrario. Questa proporzione è ancora ben lontana dall’essere realizzata. Abbiamo bisogno di una iniezione di spirito orientale. L’Europa non ha forse altro modo per evitare d’essere stravolta dall’influenza americana se non un contatto nuovo, vero, profondo con l’Oriente».

Senza retorica, concludeva, perché «affiorare progressivo di un’atmosfera in cui le reazioni reciproche siano diverse è forse spiritualmente una questione di vita e di morte per l’Europa».

Articolo apparso su Il manifesto il 25 agosto 2004

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Marco Dotti

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